Archivi autore: Stefano Vizio

Amnistia subito, riforme poi

Periodicamente, in Italia, viene lanciato l’allarme dell’emergenza carceri. La prassi vuole che si scateni puntualmente un vivace dibattito pubblico riguardo alle strategie da applicare per risolvere il problema. Si inizia a parlare quindi molto di carcere, dimenticando però subito che si sta discutendo di un’emergenza. Il punto è tutto qui: in questa vertenza si sprecano gli appelli, le opinioni autorevoli, le promesse di impegno, spesso con argomenti anche validi e significativi, ma si perde di vista il fatto che il tutto è cominciato da una situazione di emergenza umanitaria, che in quanto tale va affrontata con la massima tempestività. Se a questo si aggiunge il fatto che molto sovente il tema nel giro di qualche settimana scompare dai giornali e dalle agende politiche, emerge il barbaro paradosso di una classe politica e, cosa ancor più grave, di un’opinione pubblica che parla di questo tema per sport, per speculazione, per puro esercizio intellettuale, e nulla più.

In questo senso sono sintomatiche le argomentazioni di chi tira in ballo grandi progetti di riforme, improntati ad una maggiore equità e umanità nel sistema giudiziario: argomenti del genere, seppur assolutamente condivisibili, rivelano un approccio puramente politico alla questione; diventa, insomma, un’occasione per far valere le proprie convinzioni e la propria concezione di stato di diritto, per affermare la propria posizione politica.

È per questo che chi invoca una riforma della giustizia e del sistema carcerario per ovviare al sovraffollamento delle carceri non sta proponendo una soluzione al problema. O meglio, sta proponendo qualcosa che sarebbe una soluzione in certe condizioni che non sono quelle attuali in Italia. C’è un bisogno incondizionato ed urgente di una revisione radicale del sistema  giudiziario; il problema è che riforma e urgente sono termini assolutamente incompatibili. Questo ci basta per escludere questa soluzione tra quelle disponibili all’emergenza in questione, giacché richiederebbe qualche anno.

Lo stesso vale per chi suggerisce alcune modifiche legislative come rivedere la legge sull’immigrazione e quella sui reati connessi agli stupefacenti: queste sono proposte sacrosante, che vanno discusse e portate avanti, ma appare evidente che con un Senato e, soprattutto, un esecutivo anomali come quelli odierni, le speranze di attuare provvedimenti del genere, per di più in tempi rapidi, sono molto deboli. Per capirci, cambiare la Fini-Giovanardi con Giovanardi nella maggioranza, e per di più nella voliera delle colombe, sarebbe parecchio difficile.

Parliamo invece della revisione del codice di procedura penale per quanto riguarda la custodia cautelare. Questa proposta ha chances di essere approvata dal parlamento, con un accordo PDL e PD. Ma risolverebbe la questione? In realtà no. Intendiamoci: il modo in cui le misure di carcere preventivo sono applicate in Italia è incivile e reazionario, e va rivisto. I condannati in attesa di giudizio sono il 43% circa[1], mentre la media europea è del 27%[1]. Quest’anomalia è spiegata dal fatto che abbiamo GIP abituati a sbattere sospetti ed imputati in galera molto più spesso di quanto il buon senso suggerirebbe, e soprattutto perché il codice di procedura penale glielo consente, assicurando troppa discrezione ai giudici in questa scelta. Questo va cambiato, e, se non lo faranno a Roma, saremo – salvo imprevisti – chiamati ad esprimerci in occasione dei referendum promossi dai radicali (questo e altri 5 hanno raggiunto le 500.000 firme necessarie). C’è però un problema, e cioè che questo non basta. I detenuti nelle carceri italiane sono oltre 65.000, il 31 dicembre 2011 erano 66.897[1]; allineando la nostra media di detenuti non condannati con quella europea, uscirebbero dalle carceri circa 18.000 detenuti: rimarrebbero quindi dentro circa 48.000 persone. Molti sostengono che la capienza delle strutture penitenziarie in Italia sia di 45.000 posti letto, ma la realtà è diversa. Da anni l’associazione Antigone sostiene che quelli effettivi sarebbero 37.000, e proprio pochi giorni fa il ministro Cancellieri ha confermato questi dati[2]. È chiaro che un provvedimento del genere non risolverebbe quindi interamente la questione del sovraffollamento.

Un altro capitolo è quello delle misure alternative al carcere, applicate anche per i condannati in via definitiva. La media italiana è di 37,5 detenuti che scontano la pena fuori dalle strutture penitenziarie per ogni 100.000 abitanti, in Europa 199,2[1]. Va tenuto presente che in questi dati sono inclusi sia i condannati che gli imputati, perciò è un elemento che va a intrecciarsi, e non a sommarsi, alla questione della custodia cautelare. È chiara la necessità di una svolta su questo dato, e infatti la media italiana sta lentamente aumentando; ma anche qui gli ostacoli all’attuazione politica di una legiferazione efficace in questo senso sono evidenti. Il cammino da fare per raggiungere la media europea sarebbe lunghissimo anche in un paese in cui i disegni di legge non impieghino mesi prima di essere approvati (in Italia la media è di circa quattro mesi per i ddl governativi, di dieci per quelli parlamentari).

Amnistia e indulto sono termini che godono, di questi tempi poi ancor di più, di una pessima fama. Secondo la vulgata più diffusa, avrebbero l’unica conseguenza di rimettere per la strada pericolosi criminali e di mettere seriamente a rischio l’incolumità della brava gente che la sera vuole semplicemente poter uscire di casa senza timori. La realtà però, come al solito, è un po’ diversa. Dell’ultimo indulto, quello del 2006, hanno beneficiato per esempio solo i condannati ad una pena non superiore ai tre anni. O meglio, ne hanno beneficiato tutti, ricevendo uno sconto sulla pena di tre anni, ma a tornare liberi sono stati solo quelli che, per l’appunto, erano stati condannati ad un numero di anni pari o inferiore. Non propriamente gli assassini seriali e i pedofili, quindi.

Ma la cosa più importante è un’altra. Giacché il carcere serve a rieducare, prima che punire, se anche uscisse grazie ad un atto di clemenza del genere qualcuno che ha commesso un reato grave, l’importante sarebbe che non lo reiterasse. Qui molti gridano al fatto che un terzo di chi giovò dell’indulto del 2006 è tornato in prigione. Questo è vero: i beneficiari furono 36.741, di cui 8.155 erano soggetti ad un esecuzione penale esterna. In totale, quelli che tornarono a delinquere furono 12.462[1]. Ma chi presenta l’informazione così o è poco accorto, o è in malafede. In carcere i detenuti inclusi in un programma di lavoro sono circa 13.000, il 20%[3]: di questi, chi torna a delinquere una volta scontata interamente la pena è un numero che va dal 12% al 19%[3]. La percentuale dei recidivi tra chi sconta l’intera pena senza svolgere un’attività lavorativa (l’80%) è invece del 68,5%[3]. Questo dato è illuminante già di per sé, ma ritornando al discorso di prima: la media dei detenuti che, scontata la pena interamente, tornano in carcere, è superiore al 55%. Chi esce di prigione grazie ad un atto di clemenza è meno propenso, dunque, a commettere nuovamente reati rispetto a chi rimane in galera per l’intera durata della pena.

Combinando una decisa revisione della custodia cautelare con un drastico aumento dell’applicazione delle misure alternative al carcere, quindi, sicuramente si arriverebbe vicini a risolvere il problema. Ma queste riforme sono impraticabili senza una larga maggioranza, o almeno un esecutivo forte e compatto. Le uniche soluzioni che plausibilmente (ma neanche questo è così scontato) possano avere un’efficacia immediata, rimangono l’amnistia o l’indulto. Nel 2006, ad esempio, il tempo di approvazione dell’indulto fu di circa due mesi e mezzo[4]. È ovvio che siano un ripiego, in attesa dell’agognata riforma della giustizia. Inoltre, sono sicuramente provvedimenti pieni di contraddizioni e di difetti. Molti luoghi comuni, come si è visto, sono però totalmente infondati, alcuni addirittura  fraudolenti; ma rimangono certamente altri aspetti controversi che pongono l’evidenza sul fatto che essi non siano modi programmatici di risolvere un problema, quanto piuttosto un semplice tampone, senz’altra funzione se non quella di rinviare di qualche anno decisioni che prima o poi andranno prese. Il punto è che sono l’unica maniera con cui fronteggiare adesso un problema gravissimo e impellente, di porre fine ad un crimine di Stato, incompatibile con una democrazia europea. Non si presti ascolto a chi adduce come sostegno a questa tesi il fatto che, in caso di mancata soluzione, l’Italia dovrà pagare – per ordine della Corte di Strasburgo – una multa che potrebbe andare dai 300 milioni al miliardo di euro: le ragioni di ordine economico non vanno mischiate coi diritti civili. Hanno lo stesso valore di quelle che, in senso contrario, tirano in ballo Berlusconi: sono bestialità. Non ci sono verità assolute su questo tema, ed è impossibile trovare panacee; proviamo però a discuterne avendo bene in testa il punto cruciale della questione, e cioè che è in atto una privazione di diritti umani ad opera dello Stato, e che questa cosa va fermata subito.


[1] http://www.istat.it/it/files/2012/12/I-Detenuti-nelle-carceri-Italiane-anno2011.pdf

 

 

[2] http://www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto/penale/news/2013/10/carceri-cancellieri-posti-letto-37-mila-come-dice-antigone.html

[3]http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?previsiousPage=mg_14_7&contentId=SPS947044

 

[4] http://documenti.camera.it/leg15/dossier/testi/GI0007AA.htm#_Toc146958250