PDL, Partito della Leopolda

Probabilmente ha ragione Maurizio Landini a definire la Leopolda5 una discussione tra persone che la pensano allo stesso modo, ma la riflessione che mi sento di fare a margine parte da uno spunto di Dario Franceschini.
Proprio lui, sotto il cui segretariato breve partì il movimento di rottamazione di Renzi e Civati. Era il 2009, l’allora sindaco di Firenze sentenziò “abbiamo eletto il vice disastro“, mentre salì alla ribalta Debora Serracchiani con uno sferzante discorso proprio contro la dirigenza retta da Franceschini.
Bene, proprio l’attuale ministro della Cultura, nel suo intervento sul palco della stazione di Firenze, doma le polemiche del weekend sulla possibile spaccatura di un partito così eterogeneo richiamando all’idea di “grande partito a vocazione maggioritaria“. Tradotto, un partito che possa contenere al suo interno un ventaglio di posizioni anche molto distanti, sul modello dei grandi partiti americani.
Nulla di nuovo, insomma. Del bipolarismo si parla dalla discesa in campo di Berlusconi. Ma il contesto vibra quelle parole in modo diverso.
Tra sabato e domenica, sul palco della Leopolda si sono succeduti imprenditori, manager, scienziati, politici. Tutti lì per raccontare la propria storia edificante di successo, e per spiegare quale direzione dovrebbe prendere il Paese richiamando valori trasversali a qualsiasi corrente politica. Così trasversali che a parlare c’erano pure il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone e il Direttore dell’Agenzia dell’Entrate Rossella Orlandi. Così trasversali che c’erano pure Luca Parmitano, astronauta del momento a raccontarci di come i confini, dallo spazio, non esistano – grazie, Luca – e Silvio Bartolotti, “l’uomo che ha tirato su la Concordia“, lo hanno presentato. Insomma, la parte migliore del Paese a dirci come dovrebbe essere migliore il Paese. In qualche modo, la sublimazione dell’atteggiamento di superiorità antropologica della Sinistra, così superiore da non essere nemmeno più costretta a dimostrarsi di sinistra.
Ascoltandoli, infatti, non potevo non domandarmi: ma se il PD si prende per definizione tutto ciò che di buono c’è nel Paese, agli altri che cosa lascia? “Noi siamo quelli”, ha poi iniziato a dire Matteo Renzi, da lì a poco.
Ma quale può essere l’identità di un partito che si autodetermina con valori così generici? Essere democratici in un paese democratico, anticorruzione quando la corruzione è reato, meritocratici quando non è esserlo è apertamente riconosciuto come una colpa? E se i valori che lo contraddistinguono sono i valori comunemente accettati da tutti, cosa lascia agli altri?
La risposta l’avevo già intuita durante la lotta per le primarie 2012: un partito che sta puntando dritto e inconsapevole oltre il concetto stesso di parte. Quello scontro di principi sul diritto di voto di tesserati e mi era parso subito una questione tutt’altro che ovvia, come invece voleva farla passare l’allora sindaco di Firenze: “noi siamo quelli che includono, non che escludono”, ha ripetuto ancora domenica Matteo Renzi come lo ripeteva allora. Empaticamente efficace, relegava con abilità i vecchi dem alla parte degli oscurantisti trattenendo per sé l’egida del democratico, e quindi del giusto. Ma la verità è che il partito che accetti il voto di tutti nella costruzione della sua organizzazione interna è solo il partito che voglia essere di tutti, e quindi di nessuno in particolare. Non più ripartito, non più parte.
Con la fine delle ideologie – Bonomi vicepresidente di Confindustria sul palco sicuramente non era un segnale contrario – probabilmente anche la nostra idea di contrapposizione politica lascerà il passo.
E’ tempo quindi di ripensare i partiti politici, di crearli non più attorno ad un’idea nella quale ci si riconosce, ma attorno ad un luogo spaziotemporale in cui costruire le idee; non più incubatori di persone con un’idea, ma meccanismi di creazioni delle idee.
Come i tavoli della Leopolda, ad esempio, non fosse che alla fine c’ha ragione Landini.

 

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