Archivio mensile:Marzo 2014

Perchè ha ragione Moretti

Le esternazioni dell’ad di Trenitalia, se osservate con uno sguardo oltre il suo caso particolare, pongono un’obiezione importante alla misura del governo Renzi: è il vecchio problema del conflitto tra pubblico e privato, trattato in Italia sempre in modo ambiguo, come ci ricorda ogni bestemmia che tiriamo contro la Telecom ogni volta in cui ritarda il passaggio di linea al nostro nuovo gestore telefonico.
Fare attività privata con i privilegi o i limiti del pubblico. Nel caso, pretendere di avere ottimi manager a guidare imprese che muovono miliardi di euro e milioni di persone, e pagarli quanto prende su per giù il direttore generale della Cassa di Risparmio di una cittadina da ventimila abitanti. La concorrenza, anima del commercio quanto la pubblicità, si prenderà la briga di dimostrare l’errore: ha ragione Moretti, se ne andranno altrove, chiamati da chi sarà disposto a pagare denari sonanti per averne le capacità, mentre noi continueremo a tenerci migliaia di dirigenti comunali che guadagnano quanto il direttore generale di una Cassa di Risparmio di una cittadina da ventimila abitanti per interpretare correttamente le leggi che fa lo Stato, come se voi strapagaste qualcuno per spiegarvi cosa avete appena detto.
In altri settori, il ragionamento sembra essere stato acquisito, ma sempre in modo ambiguo: copriamo d’oro professionisti rinomati per essere anche professori universitari o primari in ospedali pubblici – alle volte, entrambe le cose – accettando quindi che affianchino l’attività pubblica e quella privata consapevoli che costringerli a scegliere potrebbe significare perderne le competenze. Ma invece di pretendere precisi risultati e comportamenti edificanti li investiamo di poteri e libertà ben oltre ogni ragionevolezza. I famosi baroni, ndr.
Purtroppo ancora una volta la nostra incapacità di trovare il cuore dei problemi ci porta altrove, a discussioni fuori tema, a soluzioni eclatanti che non risolveranno nulla, a restare sempre perennemente in ritardo rispetto al mondo evoluto, manco fossimo Trenitalia.

I primi 100 giorni di 100 di questi giorni.

Sarò breve in un confuso tentativo di coerenza.
Abbattere la burocrazia, il buon proposito di ogni campagna elettorale italiana dai tempi dello Stato Sabaudo.
Lunedì sera ho partecipato ad una interessante tavola rotonda senza la tavola (che fosse già un punto di partenza?) con l’obiettivo di proporre soluzioni che affranchino le imprese dalla morsa della burocrazia pubblica. Tra le proposte, uno sportello superunico, un responsabile unico per ogni procedura, un tutor di consulenza alle imprese, un percorso motivazionale per impiegati pubblici, la semplificazione del linguaggio normativo. Tutto molto bello, come diceva Pizzul per chiudere la cronaca di un’azione pregevole finita senza il gol.
Il sospetto che mi è venuto rincasando è che la sintesi di un’ora scarsa di idee brillanti non sia un compendio, ma una banalizzazione in buona fede dei problemi e delle soluzioni. Da qui, il sospetto ancora più forte che sia proprio la banalizzazione dei problemi, la rapidità con la quale si trovino soluzioni chiare e splendenti, a fregarci. La voglia del tutto e subito, una politica che si basi sull’ovvio e quando si scontra con il meno ovvio di tutte le prassi burocratiche, si squagli in una sterile indignazione.
Che il problema sia quindi di metodo, e quindi di cultura, ovvero della conoscenza delle cose che permetta di affrontarle. Semplificare con lo spirito, la tenacia, la mente critica e tecnica del burocrate più indefesso, non con lo spirito semplice di noi poveri mortali che parliamo come mangiamo e poi quando dobbiamo esprimerci in pubblico finiamo per usare parole complicate come “compendio” facendo discorsi un po’ ombrosi e involuti come questo.

La Grande Bellezza

C’è grande emozione e attesa sui giornali e in televisione per la notte dell’Oscar. Ce la farà La Grande Bellezza a conquistare l’ambita statuetta? Tutti sperano di si, Rai, Mediaset e giornaloni istituzionali si sono lanciati in sperticati elogi della nostra pellicola, di quanto sia straordinaria, di quanto in America siano entusiasti di Sorrentino e Servillo. Peccato che si avverta da parte di alcuni opinion leader un certo fastidio verso chi non si unisce ai peana, ovvero la critica italiana, rea di aver accolto un po’ freddamente il film quando uscì nelle sale a maggio scorso. “Alla faccia della critica La Grande Bellezza ha vinto il Golden Globe” chiosò Alfonso Signorini su Radio Montecarlo. Cosa osarono scrivere quegli orrendi scribacchini? Che si il film è buono, ma che da un autore come Sorrentino ci si aspettava di più, che il paragone con la Dolce Vita non ha senso, che pur avendo dei buoni momenti alcune delle vicende raccontate non sembravano riuscite perfettamente. Insomma un bel film, ma non certo un capolavoro, il verdetto dei nostri critici. Ma si indignarono già allora i nostri? No perché molto probabilmente né lessero le critiche né videro il film. E siccome al Festival di Cannes non ebbe neanche un premio lo lasciarono scivolare nel dimenticatoio. Ma poi arriva la vittoria del Golden Globes (i cui giurati altro non sono che critici cinematografici per lo più europei, pessima categoria, ma siccome residenti in America assolutamente cool) tutti si sono innamorati di questo film e con giusto (e non opportunistico, assolutamente no) spirito patriottico si sono scagliati contro i critici cinematografici rei di non essere inchinati al tempo dell’uscita al nuovo genio del nostro Cinema. Ora vorrei rivolgermi a questi opinion leader: la vostra attenzione verso “La Grande Bellezza” mi ricorda quella che accompagna la scherma alle Olimpiadi. Siamo tutti pazzi di Valentina Vezzali, Arianna Errigo, Diego Occhiuzzi quando l’Italia può vincere un oro olimpico, per poi sbattercene altamente per quattro anni senza neanche preoccuparci di sapere se nella nostra provincia si può tirare di scherma e ricominciare ad entusiasmarci ai Giochi successivi. A voi non frega nulla di Sorrentino, non avete visto né avete mai sentito nominare “L’Uomo in più” il suo primo film, che uscì nel 2001, quell’anno al massimo potreste avere visto nel migliore dei casi “I Cento passi”, nel peggiore “L’Ultimo Bacio” . Forse avete visto “This must be the place” perché avevate sentito che c’era Sean Penn. Non vi frega nulla del cinema Italiano, dei suoi problemi, dei giovani registi che fanno miracoli per girare un film e poi non trovano nessuno che glielo distribuisca. Non vi frega nulla, voi del cinema vedete solo l’aspetto ludico, i grandi premi, ma solo quelli cool, i party e i megadivi di Hollywood. Ma per fortuna esiste qualcuno che ci crede veramente nel Cinema Italiano e questi sono i tanti bistrattatati critici cinematografici, che certo non avranno sempre ragione, ma con mestiere e passione seguono i giovani cineasti, li incoraggiano, li segnalano e magari li premiano anche, come fecero con Paolo Sorrentino per il suo primo film col Nastro d’Argento per il miglior esordiente dell’anno. Quel film non andò bene al botteghino, ma grazie alle eccellenti critiche Sorrentino si fece un nome, potè girare un secondo film e così via fino ad arrivare dove egli è. Posso capire che a molti i critici cinematografici stiano sulle palle, a volte sono inutilmente pomposi e quasi schifati dei gusti del pubblico, ma loro il cinema lo seguono e lo amano e parlano e parleranno ancora di Sorrentino Oscar o non Oscar. Mentre voi altri se vincerà stapperete lo spumante e festeggerete al grido di “Italia” “Italia” e poi passata la sbornia dimenticherete il Cinema Italiano e i suoi autori fino a quando verranno a dirvelo dall’America che anche in Italia abbiamo un bravo regista.